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Torino-Inter, come ti risolvo la gara con i cambi

Parliamoci chiaramente, la gara col Torino dopo i primi quarantacinque minuti era la classica partita che i tifosi dell’Inter hanno visto per migliaia di volte: un incontro decisivo che, per vari motivi, non si riesce a sbloccare e il timore di pareggiarlo o peggio ancora di perderlo inizia a prevalere sulla fiducia nella squadra e puntualmente arriva il carneade di turno che conferma questo timore. E fino all’85° è stato effettivamente così: il carneade di turno è Sanabria e l’Inter già pensava di dover sperare in un passo falso delle inseguitrici per non perdere troppo terreno in una giornata sulla carta favorevole. Poi la svolta. Ma questa svolta non è casuale, bensì figlia del lavoro tecnico e tattico di questa squadra.

Iniziamo dal principio, come si conviene a un racconto; cominciamo dal primo tempo.

Per ricordare a chiunque cosa sia un vero catenaccio, Nicola ha schierato la sua versione migliore del Muro di Berlino arroccandosi dentro la propria metà campo con un baricentro posizionato sui 41 metri. Avete capito bene, il Torino, che nella prima frazione è stato compatto e arcigno, aveva la propria media di posizionamento ben prima della metà campo lasciando all’Inter, per contro, la possibilità di alzare il baricentro sino praticamente ai 60 metri. Una ventina di palloni scarsi toccati nell’ultimo terzo di campo, la chiara ed evidentissima intenzione di non concedere campo aperto all’Inter con i soli Verdi e Sanabria che in possesso di palla facevano capolino oltre la metà campo. Insomma, Nicola aveva impacchettato per bene la gara sfruttando anche i punti deboli dell’Inter vista all’Olimpico Grande Torino e – più generalmente – nel corso di questa stagione: l’incapacità di creare superiorità numerica sugli esterni a difesa schierata e la prevedibilità nella manovra contro un avversario chiuso a riccio nella propria metà campo. Poi il Torino con Lyanco avrebbe anche la palla per passare in vantaggio, ma sarebbe stata la beffa delle beffe per una squadra che sino a quel momento non aveva concesso un tiro che fosse uno agli avversari.

Dicevamo delle criticità. È apparso evidente ai più come l’out di destra, troppo schiacciato sull’area di rigore avversaria non avesse aria per rendere pericolosa la propria manovra e questo è stato reso possibile anche dall’assenza nella prima frazione di Christian Eriksen. Il vituperato danese reduce da una botta al ginocchio non è stato rischiato dal primo minuto e al suo posto è sceso in campo Gagliardini: l’ex Atalanta non è stato autore di una prestazione negativa, ma è evidente che le sue caratteristiche di gioco siano perfettamente congeniali a un avversario che vuole stare seduto sulla propria trequarti; mai una giocata in verticale, mai un passaggio più complicato, mai un rischio calcolato nel dare fluidità alla manovra. Gagliardini ha fatto il Gagliardini e questo ha non solo reso più facile al Torino difendersi, ma ha dato anche parecchi grattacapi a Perisic nell’entrare in partita e ai già citati Barella e Hakimi a districarsi fra le maglie granata che li attendevano al varco scommettendo sull’impossibilità dei nerazzurri di rendersi pericolosi sul lato opposto.

Poi il momento di Eriksen arriva e immediatamente si comprende che in questa fase del campionato rinunciare all’ex Tottenham è quantomeno complicato se non impossibile: prima di ricevere il pallone sa già la giocata da fare e come farla affinché si possano aprire degli spiragli nella difesa granata e così arriva infatti il rigore procurato da Lautaro e segnato da Lukaku soli 6 minuti dopo l’ingresso in campo del danese. Questo gol ha cambiato giocoforza lo spartito tattico pensato da Nicola non solo costringendolo ad alzare il baricentro sino ai 49 metri (comunque prima della propria metà campo), ma anche e soprattutto ad allungarsi raddoppiando le distanze fra i reparti di un Toro che sino a quel momento aveva ben eretto la propria linea Maginot. In questi casi la sola cosa da evitare è consentire all’avversario di sfruttare una palla inattiva, il solo modo verosimile attraverso cui possono rendersi pericolosi. E puntualmente così avviene con Sanabria nel bailamme dell’area nerazzurra con corpi che cadono e uno scenario che rende omaggio al calcio oriatoriale tanta era la confusione, trova il già menzionato pareggio che permette nuovamente alle truppe granata di ritornare al piano partita originale.

Ma l’Inter ha ancora tre cambi e il proprio dodicesimo uomo da schierare: spazio ad Alexis Sanchez.

L’idea non è nostra, come potete vedere, ma la realtà è che se esistesse un mondo corretto e giusto, la Serie A dovrebbe premiare anche il miglior giocatore in uscita dalla panchina e questo premio lo vincerebbe senza dubbio alcuno Alexis, con El Nino Maravilla secondo e Caicedo terzo staccato.

(Per chi non capisse il riferimento a Lou Williams consigliamo ci basta dire che per tre volte si è aggiudicato il premio in questione e in almeno altre due occasioni è finito su questo particolarissimo podio)

Passano 5 minuti dal suo ingresso in campo e il suo piede destro disegna la traiettoria a premiare il movimento perfetto di Lautaro che con l’imitazione perfetta di Crespo trova il gol meno atteso nella storia recente dell’Inter, ma non per questo meno importante, anzi. Da quando entra in campo il cileno, praticamente, il pallone è suo e decide lui cosa farne: 12 tocchi negli 8 minuti giocati, pallone tenuto per il 6,5% del tempo e gestione del finale in inusuale tranquillità per l’Inter. E il primo per palloni toccati dal momento dell’ingresso in campo di Sanchez risulterà essere Christian Eriksen con 14 palloni e il pallone giocato per l’8,1% del tempo.

Tutto questo, alla fine, per dire due cose: che la qualità non fa schifo e che se la si ha bisogna metterla a disposizione della collettività; che il catenaccio e contropiede è un’altra roba rispetto a quello di cui si è tacciata l’Inter nelle ultime settimane.

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