Meno tre giornate, poi inizierà la lotteria dell’Europa League. Fortunatamente il calendario ristretto riduce sensibilmente le ore che separano dall’ultimo triplice fischio che avverrà contro l’Atalanta in una gara che servirà solo a qualcuno per idolatrare più di quanto non sia già in facendi la squadra di Gasperini.
Senza ulteriori indugi andiamo a riassumere in breve le chiavi tattiche di una partita che è stata la più classica esibizione di porta romana della storia recente della Serie A, ma che clamorosamente qualcuno riuscirà a definire equilibrata per una sola parata effettuata da uno spettatorissimo Handanovic.
E per fare tutto ciò andremo in ordine crescente di importanza di incisione della situazione tattica in esame, partiremo da quella che ha inciso di meno per arrivare a quella più marchiana.
POSIZIONE ERIKSEN – Un giocatore coi piedi buoni non è mai un problema, checché si legga da qualche parte, qualsiasi siano i titoli a 8 colonne su quanto possa rappresentare un problema, a prescindere dalle insufficienze che si leggono di fianco al suo nome. Il solo problema è la lettura degli spazi e la conseguente ricerca della posizione da parte del danese per essere coinvolto maggiormente. Nei primi venti minuti, con la Fiorentina che mostrava parvenza di calcio moderno e non quello storico, il danese ha toccato pochi palloni, ma tutti fra le linee di difesa e centrocampo della Viola con guizzi a dir poco pericolosi, come quello del palo di Lukaku. Col passare del tempo e col rintanarsi della Fiorentina vieppiù efficace, la sua posizione si è modificata sino a giocare fondamentalmente in linea con Gagliardini e questo ha depauperato la manovra nerazzurra che si è dovuta affidare una volta di più alla ricerca costante e continua di Lukaku.
ESTERNI – Per due versi diametralmente opposti, gli esterni nerazzurri sono stati un problema e non un’arma da poter utilizzare a pieno. Candreva non è quantitativamente un problema, ma qualitativamente; Young è il contrario. L’esterno italiano non sbaglia concettualmente le sue giocate, ma ne sbaglia proprio l’esecuzione rallentando oscenamente la manovra e spezzando il flow delle transizioni; Young da par suo se non è inserito in una catena di sinistra con una mezzala e un difensore che lo assistono degnamente rischia di essere apatico e avulso alla manovra sbagliando anche le letture più semplici: se non viene imbeccato in velocità è come se non ci fosse e contro un avversario che si schiera su 20 metri questo non ce lo si può permettere.
CHIMICA DELLE PUNTE – Prendiamo in prestito una frase cult di un noto podcaster nerazzurro su Lautaro: “Deve imparare a giocare a calcio quando non segna nei primi trenta minuti“. Verità assoluta questa, ma è stato altrettanto evidente contro la Fiorentina, come nel resto della stagione, che gli altri due attaccanti nerazzurri esprimono il meglio di sé con l’argentino al fianco e non nell’altro tandem. Lukaku e Sanchez non hanno automatismi rodati, né un’intesa che li porta a leggere prima le situazioni che coinvolgono il compagno di reparto. Sono individualmente due attaccanti che fanno sempre la differenza – come dimostrano i due pali colpiti, uno a testa -, ma non riescono a creare quell’alchimia magica che si vede quando entrambi giocano al fianco di Lautaro. Sanchez che con l’argentino fa la prima punta, si deve abbassare troppo uscendo dalla zona chiave del campo, Lukaku viene usato troppo come riferimento spalle alla porta togliendogli un’arma importante come la facilità fronte alla stessa. Si potrebbe dire che i due sono alternativi e forse lo sono nonostante siano quanto di più dissimile fra di loro su un campo di calcio, ma i dati restituiscono questo. Contro la Fiorentina si sono cercati vicendevolmente tre volte, mentre contro il Torino Lautaro e Alexis hanno combinato 7 volte, lo stesso numero di volte in cui Lukaku e Martinez si sono trovati contro il Bologna. Non è la stazza dei giocatori a indicarne la compatibilità.